domenica 20 ottobre 2013

Capanna Ribia, val Vergeletto

Questa nuova avventura del gruppo S.E.I. si indirizza verso un rifugio in val Vergeletto, la capanna Ribia. Anche se la giornata comincia con un piccolo incidente, tutti siamo subito consolati dai panorami e dal sole che splende, alla faccia del nostro meteorologo di fiducia.
Quasi subito raggiungiamo a 1089 m il piccolo gruppo di case che porta il nome di Pièi, per poi addentrarci in un bosco di betulle e altre essenze, con un occhio di riguardo agli eventuali frutti che questo offre, soprattutto in autunno. Il sentiero sale ripido senza particolari difficolta'IMG_9379 tecniche, riservando bei scorci di montagne e cieli solcati da nuvole raminghe.
Dopo l'alpe di Pianaccio, 1585 m, la stretta via molto ben segnata tra i larici concede forse un paio di tratti di falsopiano, poi risale diritta tra rocce, torrenti ed erba ingiallita dai primi timidi freddi. Con il diradarsi dei larici che sono ancora quasi del tutto verdi, compare la prima neve in rapida dissoluzione sotto il sole ed il clima mite della giornata. Pare primavera avanzata.
Con un'ottima performance di ascesa raggiungiamo la capanna Ribia (1996 m),IMG_9402 costruita appena sotto il crinale che la separa da altri rilievi. La vista da qui domina le montagne e le valli a sud. Il rifugio aperto tutto l'anno è di proprieta' del patriziato d'Onsernone ed è dotato di stufa, legna, camino, occorrente per cucinare, pannelli solari, 12 posti letto con coperte. Dopo un breve pasto e la degustazione di tè verde proveniente diretto-diretto da Taiwan, decidiamo che appare illogico non sfruttare IMG_9413appieno la giornata, quindi andiamo in su', verso il Salarièl (2316 m). La salita fino alla bocchetta a 2241 metri è facile; da qui il panorama si amplia, consentendo l'osservazione delle alpi verso nord-est. A sud-ovest, nella foschia, sembra di individuare la sagoma del Mt. Rosa.
Il tardo pomeriggio e sera passano in rifugio, rispettivamente preparando la cena, sparando cavolate e quindi apprezzando la focaccia,IMG_9433 polenta e spezzatino da noi preparati.
Come previsto la domenica mattina ci accoglie con nuvole basse e vaporizzate gocce di pioggia; a questo punto non resta che tornare a valle, non prima di aver consumato parte degli avanzi della cena, messo in ordine la piccola ma confortevole capanna e dato un occhio al libro dei rifugi nel quale spiccano nomi noti al S.E.I. e...
un gruppo di olandesi "Ladyboyz"; "ladyboy" e' goliardicamente (ma con rispetto) la parola chiave della piacevole due giorni, e probabilmente entrera' nel gergo del S.E.I., auspicando che i suoi componenti non cambino troppo di carattere. Ma questo solo il tempo sapra’ raccontarlo.
Esteban  

sabato 5 ottobre 2013

sulle Alpi giapponesi in esplorazione

Trasferta giapponese per il segretario S.E.I., ospite a Kobe dell'amico Goro. Dopo dieci giorni di lavoro, il programma prevede un'escursione sulle Alpi Settentrionali del paese del Sol Levante. In particolare, la meta scelta è particolarmente appetibile, e gettonata, nel periodo autunnale, per via dei colori che, alle alte quote, sono al massimo del loro splendore proprio in questo periodo.
La partenza è da Kobe alle 14 di giovedì 3 e, con Goro alla guida, si percorrono le 5 ore di autostrada necessarie per arrivare a Toyama. Durante il viaggio ho modo di osservare le diversità del paese che mi ospita: fino a quando ci muoviamo nell'area urbana di Kobe-Osaka-Kyoto, l'autostrada sembra una nostra tangenziale urbana: ci si muove tra due eterne barriere anti-rumore, sovrastati dai grattacieli delle città che scorrono ai lati. Lasciataci Kyoto alle spalle, il paesaggio cambia rapidamente, e drasticamente. Ci si muove in una campagna non troppo popolata, puntellata da piccole risaie e paesini formati da graziose villette basse, allo stesso tempo caratteristiche e moderne. Siamo ad est del grande lago Biwa che, mi spiegano, separa il Giappone orientale da quello occidentale.
Tutto sommato, direi, una campagna vivibile, molto di più delle grandi città, un pochino alienanti per i nostri standard. Quindi, finalmente, cominciano le prime montagne, e qui la sorpresa è ancora maggiore. Abituato alle Alpi, ovunque popolate di paesini, alpeggi, insediamenti di media quota, trovo qui una netta separazione tra un mondo antropizzato, quello delle città e delle campagne, e un altro dove essenzialmente non c'è nulla. Già le prime colline appaiono rivestite da un bosco fittissimo e continuo, e tra l'altro dotato di un sottobosco impenetrabile rispetto a quanto siamo abituati. Ci sono, qua e là, dei castagni, ma ho l'impressione che qui raccogliere le castagne non sia semplice come da noi: per uscire dalla strada o dal sentiero pare volerci il machete, se non la motosega.
Mi spiegano che queste foreste di media quota sono popolate da orsi (non considerati pericolosi), cinghiali (già più molesti) e scimmie (considerate particolarmente fastidiose anche a causa della loro curiosità). Quindi cala il buio e, faticosamente, percorriamo il tratto di costa nord che ci manca per arrivare a Toyama. Qui troviamo un altro amico giapponese che verrà con noi e abbiamo modo di consumare un'abbondante e ottima cena.
Il mattino dopo, la partenza è assai presto (poco dopo le 5) perché dobbiamo prendere la teleferica prenotata per le 7 in punto in partenza dalla stazione di Tateyama. Quest'orario è anche motivato dal fatto che in Giappone non c'è l'ora legale, e quindi alle 6 di sera è già buio in questa stagione. Dunque, dopo un'altra oretta di macchina (con qualche brivido a causa di un paio di errori di percorso), arriviamo al punto di partenza, un fondovalle alpino a 475 metri di quota, dove comincia la "Tateyama-Kurobe alpine route" e dove bisogna lasciare la macchina per affidarsi ai mezzi pubblici.
Infatti, mi spiegano, nella maggior parte delle aree escursionistiche-naturalistiche più famose, l'accesso è fortemente regolamentato e consentito solo tramite questi sistemi di funivie-teleferiche-bus o combinazioni di mezzi. Nel nostro caso, il programma è prendere una teleferica che porta fino ai 1000 metri circa e quindi un autobus che, in un'ora, percorre una strada chiusa al traffico privato portando fino ai 2450 metri del rifugio di Murodou, da dove partono le escursioni. Il percorso, specialmente quello in bus, è parecchio interessante e conferma le impressioni che già avevo avuto il giorno precedente.
La strada, larga e comoda, si snoda nella prima parte attraverso un bosco densissimo e continuo di alberi di alto fusto (prevalentemente cedri giapponesi, alcuni faggi, e altre essenze locali che non so identificare). A fianco della strada si incontrano al massimo un paio di costruzioni, che peraltro sembrano abbandonate, e anche il sottobosco, fino almeno ai 1600 metri, è una specie di giungla, tanto che i pochi sentieri che si vedono partire dalla strada sono costituiti da lunghe file di passerelle di legno, altrimenti verrebbero velocemente invasi dalla vegetazione. 
Il concetto di maggengo o prato di media quota qui non c'è. Sopra i 1600 il paesaggio cambia e la vegetazione arborea cambia: si entra in un amplissimo plateau rivestito di alberi bassi (aceri, betulle, conifere) che in questa stagione hanno una meravigliosa varietà di colori. La pendenza contenuta e l'ampiezza del luogo mi fanno pensare a un paradiso per lo sci alpinismo d'inverno. Mi chiedo però come i locali possano arrivarci, dato che a novembre il servizio di trasporto pubblico chiude e la partenza da quota 475 senza punti d'appoggio intermedi non pare logisticamente troppo semplice. Questo è probabilmente il luogo più bello di tutta la zona, ma potrò vederlo solo dal vetro del bus. Non mi è chiaro se ci siano sentieri che attraversano la zona: probabilmente sì, anche se mi pare che l'attenzione dei locali sia tutta per le zone di alta montagna dove finalmente il bus ci fa sbarcare.
Arriviamo dunque alla stazione di Murodou, dove ci rendiamo conto di essere comunque in Giappone: un edificio gigantesco (almeno in rapporto al luogo in cui si trova) con negozietti e ristoranti di tutti i tipi, biglietterie con commessi in livrea e viaggiatori in ordinate code, eccetera eccetera. Fuori un enorme parcheggio occupato solo da bus (nemmeno i lavoratori della stazione o dei rifugi hanno il permesso di usare l'auto privata per raggiungere il posto: vi immaginate la stessa cosa, che so, al passo dello Stelvio?). La zona è una caldera vulcanica, ovvero una sorta di vallone incorniciato da cime intorno ai 3000. Il programma è salire una di queste, il monte Oyama. Ciò vale a dire che in un luogo già affollato andiamo a prendere il sentiero numero uno. Risultato: slalom tra una fila ininterrotta di persone. 
In compenso, almeno dai 2700 metri in poi, il percorso non è poi così elementare, sembra un po' la Cermenati alla Grignetta, ma più impervia e sassosa, e bisogna stare attenti a non muovere pietre (e soprattutto a schivare quelle che potrebbero arrivare dall'alto, visti anche i personaggi improbabili che salgono). Arrivati in cima, c'è un tempietto-bazaar e un notevole panorama su tutta la caldera e le montagne circostanti. In lontananza, in mezzo alla foschia, le mie guide locali mi indicano il cono del Fuji-San. 
La cosa che impressiona di più sono i colori degli alberi, degli arbusti, dell'erba (a detta di tutti questa è la stagione migliore per visitare la zona). Si vede però anche il rovescio della medaglia: in Giappone ci sono poche zone di alta montagna e i turisti/escursionisti che vogliono venire qui sono frotte. Dunque nel vallone sono costruiti almeno 5 o 6 rifugi di dimensioni ragguardevoli, a poca distanza l'uno dall'altro, più un camping. Le strutture sono curate e confortevoli, ma la loro dimensione è un pugno in un occhio. Inoltre qui non c'è una vera "architettura di montagna", quindi il loro aspetto è anonimo e non si integra, per i nostri standard, con l'ambiente attorno. Il resto della giornata prevede la salita ad un'altra cimetta, discesa, onsen, cena (alquanto standard) e nanna in uno dei rifugi. Eseguiamo ed imparo anche un giochetto di carte giapponese: non mi entusiasma, ma trovo che sia adatto ai bambini. Farò il test. Il giorno dopo programma più limitato, perché il meteo è previsto cambiare: si scende nel fondo del vallone, si risale a un passo da cui si vede al di là della caldera, e si torna. Nella prima parte del percorso si segnalano soprattutto le fumarole e la relativa puzza di zolfo. In certi punti si tossisce e ci si copre col fazzoletto. 
il buco nipponico!
Assicurano però che, almeno a piccole dosi, non è tossico. Ringrazio del fatto che il rifugio in cui abbiamo pernottato non è quello vicino alla zona malsana dei geyser. Saliti al passo (quota 2550 circa, se ben mi ricordo), si vede cosa c'è al di là della caldera, e mi accorgo che le montagne non finiscono affatto; anzi, le Alpi settentrionali vanno avanti parecchio, sono solo più basse della zona in cui siamo. In particolare mi colpisce che sotto di noi si apra un vallone selvaggio e bellissimo, un vero buco-S.E.I., il cui fondovalle, almeno la parte che vediamo da lassù, si trova 3-400 metri sotto di noi ed è occupato da arbusti ed alberelli di ogni colore. Chiedo a Goro di guardare la mappa per vedere se ci sono sentieri che scendono in quel paradiso e scopro che non solo non ci sono sentieri che scendono, ma che il vallone scende per chilometri senza che ci sia nulla. Dal basso arriva una strada (forestale probabilmente) fino circa a quota 1300, ma dalla fine della strada non partono sentieri, né sono indicate costruzioni nella zona. Anche le altre valli parallele sono perlopiù zone grigie sulla mappa. So che non è come da noi, che lì un bosco di media quota è una giungla impenetrabile popolata da orsi, cinghiali e scimmie. Però sarebbe bello lo stesso provare a vedere com'è.
Chiedo a Goro come ci si va, e ovviamente mi risponde che non ci si va, perché non ci sono sentieri; inoltre anche la strada non è chiaro se sia aperta al traffico privato., dunque probabilmente occorrerebbero molti chilometri a piedi partendo dal villaggio più vicino (oltre, ovviamente, al machete per quando ti avventuri nel bosco).
Si torna quindi a Murodou, ancora più affollato perché è sabato, quindi bus-funivia-auto (5 ore) fino a Kobe, dove mi rendo conto di essere stanco morto. L'escursione, anche se di lunghezza contenuta, fatta all'altro capo del mondo e dopo due settimane di lavoro e scarso sonno, mi ha provato ben più di certe avventure sulle nostre alpi. Sono contento, alla fine, che presto mi aspetta un aereo per l'Italia.
Alla prossima!
Nando